Le emozioni che curano by Erica Francesca Poli

Le emozioni che curano by Erica Francesca Poli

autore:Erica Francesca Poli [Poli Erica, Francesca]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 2019-07-22T12:00:00+00:00


Modi per rifiutare la realtà

Ci sono difese in grado di alterare il modo in cui vediamo o interpretiamo la realtà. Naturalmente non la cambiano, piuttosto la negano o evitano di vederla.

Prendiamo l’esempio di un mio giovane paziente omosessuale, che praticava rapporti sessuali non protetti con uomini molto più grandi di lui. Diceva che quando si trovava con loro, non considerava proprio la questione. Solo successivamente ci pensava e si angosciava, ma poi non andava a fare i test per l’HIV.

Il diniego della realtà, la possibilità cioè di contrarre una patologia venerea, sedava la sua ansia internamente, ma non risolveva il problema, anzi ne creava uno maggiore.

Anna Freud individuò quattro strade per negare la realtà: dal negare l’evidenza di un fatto, al prestare attenzione a una fantasia invece che alla realtà, al credere alle parole di un altro piuttosto che a ciò che si sente, fino al comportarsi come se niente fosse.

Tutti noi utilizziamo la negazione qualche volta nella vita, il punto è se siamo in grado di riconoscere il meccanismo e capiamo che stiamo cercando di negare la realtà per evitare un conflitto interno, oppure se si è persa proprio la capacità di riconoscere la realtà. Questo è un modo semplice per distinguere una cosiddetta nevrosi da una psicosi.

Una battuta che ripeteva il mio analista per distinguere nevrosi e psicosi recitava che per la persona cosiddetta “normale” 2 più 2 fa 4, per uno psicotico 2 più 2 fa 3, per un soggetto nevrotico 2 più 2 fa 4, ma “gli scoccia”. Qui si pone la questione della differenza tra un folle e un genio: per quest’ultimo forse 2 più 2 fa 5, nel senso che il genio è in grado di vedere qualcosa oltre la realtà o la normalità, ma senza perdere la bussola di cosa la realtà sia; cioè può sommare 2 più 2 fino a 4 e poi aggiungerci qualcosa.

Qualche anno fa giunse in prima visita una donna con una richiesta piuttosto curiosa. La figlia, che all’epoca aveva circa 8 anni, era affetta da una sindrome genetica con alterazioni della mobilità e ritardo mentale. Confidava che io e la mia équipe potessimo lavorare con lei, con tecniche differenti da quelle applicate fino a quel momento.

Infatti, inviai la bambina a una delle colleghe che si occupano di età evolutiva, integrando diverse metodologie tra cui la ISTDP. La piccola cominciò anche un percorso di psicomotricità. Io mi sarei occupata della madre ed eventualmente, se avesse accettato, anche del padre. E qui si manifestarono le resistenze. La signora non capiva per quale ragione dovesse sottoporsi lei a delle sedute. Si aspettava che ci occupassimo della figlia e che si potesse fare qualcosa per farle recuperare risorse. Quando le spiegai che, con genitori di figli con disabilità, era importantissimo lavorare sui loro vissuti, lei replicò che veniva da noi proprio perché la figlia superasse la disabilità.

A quel punto le dissi: “Lei vuole che sua figlia diventi normale. Lei vuole che non sia la figlia che è”. Il suo sguardo era una lama di rabbia e di dolore.



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