Le mie prigioni by Silvio Pellico Silvio Pellico

Le mie prigioni by Silvio Pellico Silvio Pellico

autore:Silvio Pellico, Silvio Pellico [Silvio Pellico, Silvio Pellico]
La lingua: ita
Format: epub
editore: BUR
pubblicato: 2010-10-14T22:00:00+00:00


CAPO SESSAGESIMOSECONDO

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni mi portarono il mio.

Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore di due colori egualmente collocati, ed un giubbettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, un vero cilicio: al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco.

Compivano questa divisa i ferri a’ piedi, cioè una catena da una gamba all’altra, i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un incudine. Il fabbro che mi fece questa operazione, disse ad una guardia, credendo ch’io non capissi il tedesco:

– Malato com’egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l’angelo della morte viene a liberarlo.

– Möchte es sein! (fosse pure!) – gli diss’io, battendogli colla mano sulla spalla.

Il pover’uomo strabalzò e si confuse; poi disse:

– Spero che non sarò profeta, e desidero ch’ella sia liberata da tutt’altro angelo.

– Piuttosto che vivere così, non vi pare, – gli risposi, – che sia benvenuto anche quello della morte?

Fece cenno di sì col capo, e se n’andò compassionandomi.

Io avrei veramente volentieri cessato di vivere, ma non era tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m’avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento.

Un istante dopo che il fabbro era uscito, intesi suonare il martello sull’incudine nel sotterraneo. Schiller era ancora nella mia stanza.

– Udite que’ colpi? – gli dissi. – Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli.

E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, vacillai, e se il buon vecchio non m’avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz’ora in uno stato che parea svenimento, eppure non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m’inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente.

Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avevan tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io avea inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori.

Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono) le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguire, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione contigua alla mia.

Oh qual gioia, qual commozione m’invase!

M’alzai dal pagliericcio, tesi l’orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.



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