Le parole by Jean-Paul Sartre

Le parole by Jean-Paul Sartre

autore:Jean-Paul Sartre
La lingua: ita
Format: azw3, mobi, epub
editore: Il Saggiatore
pubblicato: 1968-07-04T23:00:00+00:00


Scrivere

Charles Schweitzer non s’era mai considerato uno scrittore, ma la lingua francese lo meravigliava ancora, a settant’anni, dato che l’aveva imparata con difficoltà e che non la possedeva completamente: ci giocava, si dilettava con le parole, gli piaceva pronunciarle, e la sua implacabile dizione non faceva grazia di una sola sillaba; quando aveva tempo, la sua penna le assortiva in un mazzetto. Illustrava volentieri gli eventi della nostra famiglia e della scuola con operette di circostanza: auguri di Capodanno, di compleanno, complimenti ai pranzi di nozze, discorsi in versi per la Saint-Charlemagne, commediole, sciarade, rime obbligate, affabili banalità; nei congressi improvvisava quartine in tedesco e in francese.

All’inizio dell’estate partivamo per Arcachon, io e le due donne, prima che mio nonno avesse terminato le lezioni. Ci scriveva tre volte alla settimana: due pagine per Louise, un post-scriptum per Anne-Marie, e per me un’intiera lettera in versi. Per farmi meglio gustare la mia felicità, mia madre imparò e m’insegnò le regole della prosodia. Fui sorpreso a scarabocchiare una risposta in versi, mi incitarono a portarla a termine, mi ci diedero una mano. Quando le due donne spedirono la lettera, risero di cuore pensando allo stupore del destinatario. A giro di posta ricevetti una poesia in mia gloria; vi risposi con una poesia. La consuetudine era presa, il nonno e il nipote si erano uniti con un nuovo legame; si parlavano, come gli indiani, come i «protettori» di Montmartre, in una lingua vietata alle donne. Mi regalarono un rimario, divenni versificatore: scrivevo madrigali per Vévé, una bambinetta bionda che non s’alzava mai dalla poltrona a sdraio e che doveva morire qualche anno dopo. La bimbetta se ne impipava: era un angelo; ma l’ammirazione di un largo pubblico mi consolava di questa indifferenza. Ho ritrovato qualcuna di quelle poesie. Tutti i bambini hanno genio, tranne Minou Drouet, ha detto Cocteau nel 1955. Nel 1912, ne avevano tutti, tranne me: scrivevo per scimmiottatura, per cerimonia, per fare la persona grande: scrivevo soprattutto perché ero il nipotino di Charles Schweitzer. Mi diedero le favole di La Fontaine; non mi piacquero: l’autore se la pigliava comoda; decisi di riscriverle in alessandrini. L’impresa era superiore alle mie forze e credetti di notare che essa faceva sorridere: fu la mia ultima esperienza poetica. Ma ero lanciato: passai dai versi alla prosa, e non ebbi la minima difficoltà a reinventare per iscritto le appassionanti avventure che leggevo su Cri-Cri. Era ora: stavo per scoprire l’inanità dei miei sogni. Durante le mie fantastiche cavalcate, era la realtà che io volevo raggiungere. Quando mia madre mi chiedeva, senza distogliere gli occhi dallo spartito: «Poulou, che fai?» mi accadeva talvolta di rompere il mio voto di silenzio e di risponderle: «Faccio il cinema.» E infatti tentavo di strappare dalla mia testa le immagini e di realizzarle fuori di me, tra mobili veri e pareti vere, immagini smaglianti e visibili quanto quelle che scorrevano sullo schermo. Invano; non potevo più ignorare la mia doppia impostura: fingevo d’essere un attore fingendo d’essere un eroe.

Appena ebbi iniziato a scrivere, posai la penna per esultare.



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