Mio padre era fascista by Pierluigi Battista

Mio padre era fascista by Pierluigi Battista

autore:Pierluigi Battista [Battista, Pierluigi]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: History, General
ISBN: 9788852070600
Google: o8ZRCwAAQBAJ
editore: Edizioni Mondadori
pubblicato: 2016-01-25T23:00:00+00:00


VI

«Il boogie-woogie della sconfitta»

Mio padre portava con sé tracce del fascismo perduto che si riflettevano in parole, modi di dire, tic verbali, ritualità inconsapevoli, nostalgie improvvise, fantasie, avversioni destinate a plasmare la sua quotidianità e quella che pomposamente viene definita «concezione del mondo». Se la sua fedeltà al fascismo riusciva a mimetizzarsi nella vita civile e professionale scandita dalle convenzioni, la sua mentalità fascista si esprimeva tutti i giorni, per anni e anni, nelle preferenze, nelle fobie e nelle idiosincrasie che dal regime trionfante si erano trasferite nell’esperienza tragica e crepuscolare della Repubblica sociale, per poi trovare posto pure nei decenni dell’esilio in Patria, nell’Italia, nell’Italia diventata nemica, rinata con la Costituzione antifascista. Mio padre era fascista quando parlava della famiglia, quando si alludeva alla sfera del sesso, quando si dovevano definire i doveri delle donne, quando disprezzava le «deviazioni», le «irregolarità», le «depravazioni» molto diffuse a suo dire nello schieramento a lui nemico, e anche quando canzonava il linguaggio degli intellettuali che lui definiva immancabilmente, in modo sprezzante, come se fossero la sentina di tutti i vizi e di tutti gli snobismi più odiosi, l’«intelligencija». Mio padre diceva che Mario Scelba era un politico da odiare e da amare. Da odiare perché aveva dato il suo nome alla legge che vietava la ricostituzione del disciolto partito fascista. Da amare perché aveva coniato il termine «culturame», che trovava un’invenzione geniale. Per forza, era fascista, e quell’irridente «culturame» gli si attagliava alla perfezione.

Mi ha sempre colpito, per esempio, che uno dei tic mentali e dei pregiudizi ereditati dal passato regime si fosse incollato dentro di lui come una seconda natura. Un tic tutto sommato innocuo, forse solo una buffa manifestazione di immarcescibile folclore fascista, ossia l’abitudine di attribuire potenti capacità iettatorie all’avversario politico, o anche semplicemente al dissidente. Durante il Ventennio usava molto screditare chi fosse in odore di eresia o di fronda come un portatore di sventure o un menagramo. E il conformismo delle alte sfere del regime provava una maligna soddisfazione a propagare una maldicenza che si immaginava ispirata nientemeno che dal Duce in persona. Una forma di superstizione applicata alla politica che sopravvisse al crollo del fascismo storico e si diluì in piccole scaramanzie private, in minuscole prove, da parte di mio padre, di malcelato esorcismo anti-antifascista. Quante volte lo avrò visto, lui di solito così misurato e autocontrollato, inseguire nelle tasche o sul tavolo oggetti di ferro da toccare vigorosamente quando appariva alla televisione qualche avversario antipatico o sgradevole. Inoltre, il rito scaramantico paterno tendeva a inglobare nella categoria dei menagramo interi gruppi politici, in particolare quelli più inclini al pessimismo antropologico sull’Italia o a una certa posa anti-italiana coltivata snobisticamente come reazione all’arci-italianismo fascista. E infatti, per mio padre, il Partito d’Azione (e tutte le sue successive propaggini) rappresentava quasi un covo di iettatori, una confraternita del malaugurio, un club triste di «visi pallidi», come venivano chiamati, oppure di «fegatosi» che dal primo all’ultimo auspicavano come gufi appollaiati sugli alberi che l’Italia naufragasse e andasse a ramengo per instaurare la dittatura degli intransigenti.



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