Nei tribunali by Giovanni Focardi Cecilia Nubola

Nei tribunali by Giovanni Focardi Cecilia Nubola

autore:Giovanni, Focardi,Cecilia, Nubola [Focardi, Giovanni Nubola, Cecilia]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Storia, Annali dell'Istituto storico italo-germanico in Trento
ISBN: 9788815326645
editore: Societa editrice il Mulino Spa
pubblicato: 2016-10-14T22:00:00+00:00


8. Dalle «certezze d’indole etico e storico» su Graziani al «mausoleo alla crudeltà che non fa indignare l’Italia»

«Signor presidente, tanto è inutile che continuiate la farsa, noi sappiamo come finisce il processo del più grande criminale … speriamo che presto potremo fare noi giustizia per trattarvi al pari del vostro collega, che fate finta di giudicarlo». Ancor prima della sentenza la lettera era inviata a Beraudo di Pralormo dai «genitori di un gruppo di assassinati», trenta «figli del popolo», presentatisi in ritardo alla chiamata di leva, e fatti fucilare a Firenze in applicazione di un bando di Graziani. Tutto lo svolgimento del processo al «traditore» pareva a «l’Unità» espressione di un «rigurgito antifascista»[131]; per le Associazioni partigiane la sentenza era «uno scandalo», per i sostenitori di Graziani valeva un’assoluzione[132], anche perché il 29 agosto 1950 il condannato tornava in libertà, nonostante le richieste del pubblico ministero[133]. Il neo fascista «Meridiano d’Italia» pubblicava La Repubblica sociale italiana vista dai giudici di Rodolfo Graziani, cogliendo nella storia in tribunale il banco di prova dell’onore e amor di patria che legittimava i vinti[134]. Quella che appariva come una «disamina di un periodo storico» sollevava dunque commenti discordi, tra chi vedeva una «coerenza» nel calcolo di condanna e attenuanti, e chi lamentava il «trattamento benevolo, spiegato col fatto che dei generali hanno giudicato un generale». Il «Corriere della Sera» criticava la «assoluzione per insufficienza di prove del massacratore di indigeni e partigiani», ostacolo alla ricostituzione di un esercito fatto di generali «consci dei propri doveri». «La Stampa» era allarmata per l’esito di questo ed altri verdetti per la tenuta del «regime democratico», pur nella sottolineatura che «Graziani è moralmente morto e la liberazione imminente dal carcere non lo risusciterà»[135]. Zara Algardi rilevava il paradosso di un Graziani ritenuto dai giudici militari «al tempo stesso filotedesco e antitedesco»[136]; Carnelutti considerava che il suo patrocinio «non riuscì ad evitare una condanna, la quale tuttavia, pur facendo applicazione della legge penale retroattiva, sul piano etico e nazionale lasciò illeso l’onore e il prestigio del maresciallo»[137]. Per il magistrato torinese antifascista Peretti Griva il «giudizio di spiccata moralità sul condannato» era circoscritto ai suoi motivi «interiori», senza «riverberarsi sul fatto costituente delitto»[138]. Anche per Repaci quella sentenza, discutibile in certi profili «d’indole strettamente giuridica e giudiziaria», fissava precise «certezze nell’ordine etico e storico»; il magistrato concludeva «gli uomini della Resistenza hanno una precisa e incrollabile certezza su questo punto»[139]. Nello stesso senso Labanca ha osservato che la condanna inflitta il 2 maggio 1950 dal Tribunale militare di Roma – confermata dal Supremo Tribunale militare – decretò una «verità ufficiale per la Repubblica»[140].

Nel 1953 la vicenda giudiziaria di Graziani si chiudeva con la presa d’atto da parte delle sezioni unite della Cassazione della rinunzia al ricorso a suo tempo presentato dalla difesa del condannato per «difetto di legittimità»; nel commento della Algardi il condannato «si era reso conto, finalmente, di aver già ottenuto dagli organismi giudicanti tutto quanto poteva ottenere»[141]. Il «processo fatto, Dio sa quante volte, dagli italiani»,



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