Trecento giorni di sole by Giovanni Chinnici

Trecento giorni di sole by Giovanni Chinnici

autore:Giovanni Chinnici [Chinnici, Giovanni]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Mondadori
pubblicato: 2023-03-03T12:00:00+00:00


XV

Da Pedro, buonanima

Un giorno decisi di andare a trovare papà al palazzo di giustizia, approfittando di una delle tante giornate di sciopero degli studenti. Da un po’ andavo in giro vestito come un «malacarne». Mi divertiva. Sarà stato per spirito di ribellione nei confronti della mia fidanzata pro tempore, Daniela, che mi avrebbe voluto sempre con il maglione a V e i pantaloni eleganti. Una volta mi presentai alla festa di carnevale della nostra amica Laura vestito da carcerato, con tanto di barba lunga. Daniela mi voleva defenestrare, per fortuna eravamo al primo piano. Adesso io porto sempre l’abito scuro. Lei è rimasta elegante come allora, e insegna procedura penale all’università. Anche papà in quel periodo si lamentava della mia mise, ma la tollerava. Mamma mi proponeva spesso di andare a comprare qualcosa di più decente, ma ogni volta io declinavo l’invito.

Il grande palazzo di marmo continuava ad avere, su di me, il fascino che mi suscitava da bambino. Mi piaceva andare a trovare papà. Era esuberante e allegro anche al lavoro. Mi presentava a tutti i suoi colleghi e collaboratori, esibendo nei miei confronti un misto di affetto, orgoglio e ironia.

Quel giorno mi presentai infagottato nel mio piumino azzurro sopra un paio di jeans sdruciti. Il grande corridoio al piano rialzato era controllato da due carabinieri. Non mi conoscevano, e probabilmente a causa del mio aspetto un po’ inquietante si lanciarono su di me come due tigri: «Chi sei? Dove stai andando?» mi chiesero.

«Sono il figlio del giudice Chinnici» risposi con serenità olimpica.

I due gattini si guardarono interdetti, non sapevano cosa fare. Era più o meno la scena di molti anni prima, quando da bambino nella solitudine pomeridiana del palazzo di giustizia mi imbattevo nella pattuglia di guardia. Mi divertiva. Mi facevano passare subito, in genere andava così.

In un paio di occasioni le guardie si rivolsero perplessi al capoposto: «Dice che è il figlio del giudice Chinnici, che dobbiamo fare?».

«E fallo passare, no?!» rispondeva sempre il capoposto.

Papà era orgoglioso del suo nuovo ufficio da capo. Era una grande stanza quasi quadrata, con l’anticamera. Di fronte alla grande scrivania c’era un bel salotto in stile moderno; dietro, una libreria di legno nascondeva una porta che si apriva su una piccola toilette. C’era anche una seconda porta di servizio, che portava a delle scale e a un ascensore riservati. Altro che la semplicissima stanza 45. Papà era felice come una pasqua.

«Senti che facciamo» mi disse quella volta. «Dovevo andare a pranzare da Pedro con alcuni colleghi, ma mi hanno dato buca. Se vuoi ci andiamo noi due.»

Dopo la nomina a consigliere istruttore, papà aveva iniziato un’opera di sensibilizzazione sulla inadeguatezza della normativa allora vigente di fronte a un fenomeno sempre più grave e complesso come quello mafioso. Si rivolgeva soprattutto ai suoi colleghi più giovani, ma anche ai docenti universitari e ai pochissimi politici allora disposti a occuparsi del tema (praticamente soltanto Pio La Torre, Nino Mannino e Alfredo Galasso, tutti del Pci). Spesso organizzava pranzi o cene di lavoro, semplici



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