Opulentia sordida e altri scritti attorno ad Aldo Manuzio by da Rotterdam Erasmo

Opulentia sordida e altri scritti attorno ad Aldo Manuzio by da Rotterdam Erasmo

autore:da Rotterdam, Erasmo [da Rotterdam, Erasmo]
La lingua: ita
Format: epub
ISBN: 2c452a36214cecf7167ecfae45c61464b31fd309
editore: Marsilio
pubblicato: 2015-05-12T22:00:00+00:00


LE FATICHE DI ERCOLE

(HERCULEI LABORES)

Le fatiche di Ercole. Si intendono in due modi: da una parte, ci sono quelle fatiche numerose e pesanti che necessitano di forze erculee, come le intendeva Catullo [55,13]: «Ma già è una fatica degna di Ercole, disse, cercarti». Parimenti Properzio [2,23,7]: «Poi quando avrai sostenuto quelle che la leggenda chiama fatiche di Ercole». E ancora altrove [2,24,34]: «non è una fatica dell’Alcide». Marco Tullio, nel secondo libro Sui confini del bene e del male [118]: «Eppure, anche se meriti il bene da tutte le genti, anche se porti aiuto e salvezza a chi è in difficoltà, quasi sopporti le fatiche d’Ercole. Così anche i nostri antenati hanno dato il nome tristissimo di fatiche alle pene che non potevano essere evitate, anche da un dio. Chiederei a te» etc. Dall’altra, sono dette «fatiche d’Ercole» quelle che, sebbene portino certamente grandissimi vantaggi agli altri, non procurano però alcun guadagno al suo autore, tranne un po’ di fama, e moltissima invidia. E si credeva che gli fosse capitato questo a causa di un qualche destino, poiché «nato nella quarta luna», così come ho detto altrove [Ad. 77]. Omero [Il. 19,91-133], secondo l’usanza dei poeti, imputa la colpa alla dea Ate e a Giunone, la quale, nemica di Ercole perché nato da una concubina del marito, lo espose ad ogni pericolo. Inoltre, le fatiche erculee sono celebrate ed elencate dai poeti. Di tutte queste, di gran lunga la più difficile e la più grande è l’idra di Lerna, un mostro resistente e anzi quasi invincibile anche per chi già aveva vinto tutto. Con questo simbolo Orazio nelle Epistole [2,1,10 ss.] indica chiaramente che gli antichi hanno voluto esprimere l’invidia, quando dice: «Chi ha combattuto l’idra funesta / e ha sottomesso famosi mostri con fatica fatale, / scoprì che l’invidia si doma solo con la morte». Solitamente questo terribile flagello si accompagna ad imprese bellissime e segue le migliori virtù non diversamente dall’ombra il corpo, come a proposito ha detto Giuseppe nell’opera La presa di Giudea [1,208]: «non esiste alcun modo per sfuggire all’invidia per le belle azioni». Chi infatti potrebbe scampare all’ombra dell’invidia, se non rifugge insieme anche la luce della virtù? Coesistono alternativamente questi due aspetti, e la cosa più orribile di tutte accompagna quella più bella. Perciò sembra che a ragione Pindaro abbia scritto [Pyth. 7,18]: «Mi addolora che questa invidia sia la ricompensa di belle imprese», sopportando il fatto davvero male e con sdegno, poiché è molto vergognoso che imprese gloriose siano ricompensate dall’invidia. E in verità, mi sembra giusto che gli antichi attribuirono all’idra, inizialmente un mostro delle paludi, il simbolo dell’invidia, poiché, come dicono anche gli studiosi della natura, sono più inclini a questo male coloro che sono forniti di animo basso e abietto, e lo sono anche quelli che hanno il sangue più freddo. E perciò anche in Nasone [Met. 2,761 ss.] si trova: «La dimora dell’invidia si trova nelle valli profonde / nascosta, senza sole, impenetrabile al vento, / triste, piena di un freddo che intorpidisce e che sebbene / sia sempre priva di fuoco, abbonda sempre di nebbia».



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