Sei chiodi storti by Dario Cresto-Dina

Sei chiodi storti by Dario Cresto-Dina

autore:Dario Cresto-Dina
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Coppa Davis, tennis, Adriano Panatta, Cile, pinochet, Vite inattese, John McEnroe
editore: 66THAND2ND
pubblicato: 2016-04-12T16:00:00+00:00


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Otto ottobre 1976. Il governo Andreotti vara un pacchetto di provvedimenti che si abbatte con la durezza di una scure sulle finanze e i risparmi degli italiani. I più pesanti riguardano il blocco graduale della contingenza per gli stipendi superiori ai sei milioni annui, il ritocco di cento lire al litro della benzina, la supertassa sulle auto diesel, l’aumento dal trenta al cinquanta per cento della cedolare secca sui dividendi dei titoli azionari e la cancellazione di sette festività per limitare «i ponti», tra le quali San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, San Pietro e Paolo e Ognissanti.

Ottobre sarà il mese dei salti mortali in omaggio. Buio sotto il tendone. Sul filo d’acciaio teso a dieci metri d’altezza si avvicendano i funamboli. Alcuni sono professionisti della vertigine, altri sono alle prime armi. Nessuno può sapere se sotto di sé, nell’eventualità di precipitare, troverà una rete di protezione. Provano il loro numero preferito e pregano di non schiantarsi al suolo. Il governo monocolore democristiano passa alla Camera con una formula istituzionale inedita e machiavellica. È la terza volta dell’acrobata Giulio Andreotti che ai parlamentari dice: «Ho proposto al capo dello Stato la nomina dei ministri che si presentano con me per avere la vostra non sfiducia». Il governo ottiene il voto di 258 deputati su 630, gli astenuti sono 328, i contrari 44. Al Senato i sì sono 137, i no 17, gli astenuti 161. Assieme al Pci non partecipano alla votazione socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Andreotti non cade dalla corda sulla quale cammina solo grazie alle astensioni. Un’assurdità tutta italiana. Rispetto al precedente governo Moro entrano Forlani agli Esteri, Pandolfi alle Finanze, Colombo alle Poste, De Mita alla Cassa del Mezzogiorno e Tina Anselmi al Lavoro. È la prima donna a ricoprire l’incarico di ministro della Repubblica.

«Ho anteposto il bene del paese alle questioni di opportunità politica» spiega Enrico Berlinguer, che proprio dopo il golpe cileno del ’73 aveva teorizzato i contorni del «compromesso storico» con tre famosi articoli apparsi su «Rinascita», passo d’esordio di una strategia politica volta a legittimare il Pci come attore di governo affidabile sulla scena internazionale.

Anche il segretario del Partito comunista sta percorrendo la sua fune. Un anno prima, in occasione delle elezioni amministrative di primavera, nelle vele del Pci ha soffiato il vento impetuoso del sorpasso, una spinta che lo ha issato alla quota del trentatré per cento (appena tre punti in meno della Dc minata dallo scandalo delle tangenti Lockheed e dalle divisioni interne) e gli ha consegnato le prime cinque città italiane: Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova.

Dodici mesi dopo, quando Indro Montanelli, con una citazione presa in prestito da Salvemini, consiglia ai suoi lettori, e non solo a loro, di turarsi il naso e votare Dc alle politiche, Berlinguer sul «Corriere della Sera» confessa a Giampaolo Pansa, con una piroetta che spiazza l’ala più radicale della sinistra e sorprende anche molti dei suoi più vicini collaboratori, di essere contrario all’uscita dalla Nato «perché dentro il patto atlantico l’Italia, oltre che



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