Un italiano a Parigi. Storia di un amore by Alberto Mattioli

Un italiano a Parigi. Storia di un amore by Alberto Mattioli

autore:Alberto Mattioli [Mattioli, Alberto]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Garzanti
pubblicato: 2021-10-24T22:00:00+00:00


Le due Opéra

Garnier o Bastille? Vabbè, non c’è storia. Garnier tutta la vita, anche come preclaro esempio delle «rivoluzioni vicissitudinali», come le chiamava Bruno, e stavolta del gusto. Perché sul mirabolante teatro di Charles Garnier, ciliegina sulla torta del rinnovamento urbanistico del Secondo Impero e poi finalmente inaugurato sotto la Terza Repubblica senza invitare l’architetto sospettato di bonapartismo, fu a lungo d’obbligo fare dell’ironia: «una torta nuziale», ricordo la sua definizione nel lessico familiare. E giù sarcasmi su questo cattivo gusto del più ce n’è e meglio è, quest’estetica del neo-tutto, su questo troppo di tutto, questo affastellarsi di statue, stucchi, ori, marmi, specchi, velluti, camini, comignoli, fregi, candelieri, lampadari, mosaici, scaloni, scalini e chi più ne ha più ne metta (epperò, per entrare in platea si passa da una specie di cunicolo da rifugio antiaereo, ma forse è solo un trucco per fare a chi entra la sorpresa della sala ridonante e sberluccicante che gli esplode di colpo negli occhi). E avanti con dotte analisi sociologiche sulla sovrabbondanza decorativa e l’ipertrofia del lusso come espressione della borghesia più trionfante, arraffona e abbuffona.

Oggi, francamente, queste scomuniche non si portano proprio più. Prendere esempio dagli americani in estasi o dai cinesi col telefonino rovente, che del less is more non sanno proprio che farsene e si lasciano abbacinare da questa festa per gli occhi con la stessa golosità di un bambino cui in pasticceria viene detto: mangia pure tutto quello che vuoi. Eh, sì, per una volta, lasciateci fare indigestione. La nostra è un’età neobarocca, il minimalismo ha stufato come gli spettacoli di Bob Wilson, prendiamo le smargiassate di Garnier con la dovuta ironia e divertiamoci un po’: l’ornamento smette di essere delitto e diventa diletto. Piace, oddìo no, non esageriamo, diciamo che non guasta, anzi no, si sopporta perfino il soffitto di Chagall, decisamente non la sua cosa migliore e che qui proprio stona.

E la Bastille? Mah. Voluta da Mitterrand come teatro «popolare» per il bicentenario della Rivoluzione, è stata criticatissima prima ancora che la costruissero. A Parigi se ne sono raccontate di cotte e di crude, anche perché tutti rimasero increduli quando dal concorso internazionale uscì vincitore il progetto di uno sconosciuto uruguaiano trentasettenne che all’epoca lavorava in Canada, Charles Ott, e che non è che poi sia diventato granché famoso. Il teatro è un mastodonte sgraziato che incombe su una piazza, già di per sé non bellissima, come un dinosauro a quadretti, le famigerate piastrelle esterne che iniziarono a staccarsi dopo pochissimo tempo, con un portale d’ingresso scomodissimo che infatti non si usa mai e la scalinata che ci sale diventata un eterno bivacco di turisti in infradito e skater che si fanno le canne. La sala grande da 2.703 posti, almeno, è comoda (alcuni sostengono troppo, e che le poltrone istighino al pisolino), con una discreta acustica forse un po’ secca ma con il dramma delle toilette insufficienti, dunque perennemente occupate. Lasciate ogni speranza di fare pipì, o voi ch’entrate.

Doveva essere l’opera per tutti, con prezzi contenuti.



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