Un italiano contro by AA. VV

Un italiano contro by AA. VV

autore:AA. VV. [VV., AA.]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Solferino
pubblicato: 2021-06-20T22:00:00+00:00


Quando le Br spararono a Montanelli

di Dino Messina

«Vigliacchi, mi hanno fottuto» fu il suo commento immediato a denti stretti mentre il sangue cominciava a colargli dalle gambe. Avevo visto i due terroristi che avevano colpito Indro Montanelli allontanarsi a passi decisi ma senza correre attraverso la galleria che congiunge via Manin con via Turati e la figura di un uomo alto, magro, aggrapparsi all’inferriata dei giardini e scivolare lentamente a terra. Da lontano non avevo capito di chi si trattava. Fui il primo ad avvicinarmi al giornalista ferito, che riconobbi, e mi chinai per reggergli la testa. Era una giornata di sole a Milano, quel giovedì 2 giugno 1977. «Come si sente, direttore?» gli chiesi.

«È la festa della Repubblica» annotò nel suo diario il fondatore del «Giornale nuovo», «io la celebro ricevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella.» Poco dopo le dieci del mattino Montanelli era appena uscito dall’Hotel Manin, dove risiedeva, per fare una passeggiata nei giardini che oggi portano il suo nome prima di andare in redazione per la riunione del mattino, nel palazzo dei giornali di piazza Cavour. Aveva attraversato la strada e stava costeggiando la cancellata protetta dall’ombra degli alberi quando venne investito da una scarica di colpi sparati a non più di cinque metri di distanza da uno dei due terroristi che lo aspettavano con una pistola calibro 7,65. Un altro, pure lui armato, copriva l’azione dall’altra parte della strada. Un terzo aspettava in auto, una 128 bianca con il motore acceso, parcheggiata in via Carlo Porta, all’angolo con via Turati.

Ero in piazza Cavour, a pochi metri di distanza, stavo per entrare nel palazzo dei giornali per andare alla redazione milanese dell’«Avanti!» quando sentii il rumore delle esplosioni attutite dal silenziatore e d’istinto mi rifugiai dietro un palo della luce. Quando vidi che i due attentatori si allontanavano, corsi verso Montanelli. Gli sorressi la testa per qualche istante, poi arrivò una persona più esperta che gli legò la gamba destra con una cintura per arrestare l’emorragia e una signora con un cane lupo al di là della cancellata che si abbassò e disse al ferito, dolorante ma lucido, qualche parola di conforto. Pochi minuti e in via Manin erano arrivati dal «Giornale» il cronista Paolo Longanesi e l’autista Sebastiano Mele, che casualmente avevano osservato la scena da una finestra. Il luogo dell’agguato era stato subito presidiato da agenti di polizia con il mitra spianato prima ancora che giungesse l’ambulanza dal vicino ospedale Fatebenefratelli, dove venne accertato che Montanelli non aveva subito danni vitali, quindi poteva essere trasferito alla clinica Madonnina. Tre pallottole avevano attraversato la coscia destra, una quarta, trapassando un gluteo, si era fermata sul femore sinistro. È un miracolo, aveva commentato Edmondo Malan, il chirurgo e amico del ferito, estraendo il proiettile, «che in queste gambette di pollo arterie, vene e ossa siano rimaste illese».

Ripensando a quei minuti di terrore, Montanelli capì che oltre alla fortuna doveva salva la vita a due suoi comportamenti che gli aveva dettato l’istinto. Il primo era di non lasciarsi cadere di botto, ma rimanere in piedi il più a lungo possibile.



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