Vidal Gore - 2003 - L'invenzione degli Stati Uniti. I padri: Washington, Adams, Jefferson by Vidal Gore

Vidal Gore - 2003 - L'invenzione degli Stati Uniti. I padri: Washington, Adams, Jefferson by Vidal Gore

autore:Vidal Gore [Vidal Gore]
La lingua: ita
Format: epub, mobi
ISBN: 9788881128457
editore: Fazi
pubblicato: 2007-01-01T23:00:00+00:00


Capitolo quinto.

Il secondo mandato del presidente Washington non fu motivo di grande piacere per nessuno degli interessati. La Rivoluzione francese continuava a tenere in soggezione i repubblicani. A Boston, i francofili si rivolgevano gli uni agli altri - presumibilmente con accento bostoniano - chiamandosi “citizen” e “citizeness”, “cittadino e “cittadina, e chiedevano a gran voce la morte di tutti gli aristocratici, benché notoriamente nel New England quella categoria non esistesse. Nel 1793, la nuova Repubblica francese inviò negli Stati Uniti, in veste di ministro, un giovane e focoso polemista, Edmond Charles Genet, il quale sosteneva che gli Stati Uniti dovevano onorare il Trattato franco-americano del 1778, in base al quale ciascuno dei due paesi si impegnava a venire in soccorso dell’altro in caso di guerra. Fortunatamente per le colombe dell’amministrazione, il Trattato parlava di assistenza soltanto nell’eventualità di una guerra difensiva. Dal momento che in quel caso la Francia era chiaramente l’aggressore, Washington non andò in soccorso proprio di nessuno. Anzi: in quell’ultima guerra europea, proclamò personalmente una politica di neutralità, e per giunta dimenticò di consultare il Congresso - con gesto assai azzardato. Genet avrebbe voluto che Washington si confrontasse con lui dinanzi al Congresso riunito. Washington si adoperò perché i francesi lo richiamassero in patria.

John Adams aveva conosciuto la famiglia di Genet in Francia, e aveva conosciuto anche lui da ragazzo. Cortesemente, ricevette il focoso ministro e poi ne dipinse uno dei suoi tipici ritratti di genere cimiteriale: «Un giovane totalmente privo di qualsivoglia esperienza di governo, che non ha mai frequentato assemblee popolari o convenzioni di qualsiasi sorta: pochissimo avvezzo a riflettere sul suo proprio cuore o quello delle altre creature come lui; del tutto ignorante delle leggi della natura e delle nazioni». Tuttavia gli fece credito di uno «stile declamatorio […] un’immaginazione vibrante e piena di svolazzi, un ardore del temperamento, e una condotta civile». Insomma, due secoli fa, gli arguti francesi ci avevano inviato una personalità archetipica, la cui incarnazione americana era destinata, un giorno, ad accomodarsi nell’ormai traballante scranno di Washington.

Anche Jefferson, pur romanticamente disposto ad accogliere il dono della Francia all’America repubblicana, litigò per l’ennesima volta con Hamilton, il quale pensava che ricevere quell’ambasciatore proveniente da una Repubblica assassina sarebbe equivalso a riconoscere il Terrore e, peggio ancora, a vincolarci al Trattato del 1778. Il round fu vinto da Jefferson, con rammarico del medesimo. Ecco l’estremo epitaffio di Jefferson per Genet: «Una testa calda, tutta fantasia e niente giudizio: appassionato, privo di rispetto, e persino indecoroso nei riguardi del presidente». Frattanto, l’Agente Numero Sette confidava il tutto al ministro britannico George Hammond, il quale fu indubbiamente rincuorato quando capì che non sarebbe scoppiata la guerra fra gli Stati Uniti e l’Inghilterra, mentre era assai probabile un conflitto fra gli Stati Uniti e la Repubblica francese. Alla fine, sconfitto da Hamilton a corte, Jefferson si dimise da segretario di Stato alla fine del 1793 e se ne tornò a casa sua, a Monticello.

Adams scrisse ad Abigail: «Sono avvezzo da così lungo tempo a pensar



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