Vivere by Elisabeth Revol

Vivere by Elisabeth Revol

autore:Elisabeth Revol [Revol, Elisabeth]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Solferino
pubblicato: 2020-05-21T22:00:00+00:00


27 gennaio 2018

Le 3 o le 4 del mattino

Mi sveglio di colpo! Il mio piede! La mia scarpa! Ho solo il calzino! La scarpa sinistra non si trova più accanto a me sul piccolo cuscinetto nevoso. Dev’essere caduta in fondo al crepaccio. Come recuperarla? Non vedo niente, le batterie della lampada frontale sono scariche. Sono davvero una stupida! Mi sono addormentata e spostandomi l’ho lanciata in fondo a questo congelatore dal soffio glaciale. Devo fare pipì, ma sono distesa su un sottile ponte di neve sull’orlo del baratro. Lo spazio ridotto non mi permette di togliermi la tuta. Mi sposto fino all’uscita del crepaccio, unica zona un po’ meno stretta. Mi sfilo la tuta, cerco di accovacciarmi, ma resto sbilanciata per non appoggiare il piede sinistro sul ghiaccio. Appoggio le mani sul labbro esterno del crepaccio. Urino tra mille difficoltà. Innaffio il calzino, impreco. Mi costringo a rinfilarmi tutti i vestiti con cura.

Infilo il piede nella parte inferiore della tuta per proteggerlo. Mi rannicchio come una bambina, temendo che la notte mi venga incontro ancora nel sudario di ghiaccio del crepaccio. Non vedo l’ora che questa notte finisca, di uscire da questo inferno glaciale.

Ho il calzino umido e ben presto la tuta si sfila, il piede resta scoperto. Ma sono troppo stanca per reagire.

Riaccendo l’inReach. Trovo numerosi messaggi di Ludo.

Alle 2: «Se leggi queste parole sforzati di risponderci. Non lasciarti sconfiggere dal freddo. Resisti».

Alle 3:32: «Urubko fa parte dei soccorsi. 6 persone. 2 elicotteri».

Preferisco non rispondere, devo limitare l’uso delle dita. Auspico l’alba, sonnecchio. Tutt’a un tratto mi ritrovo nella stanza di quando ero bambina nella casa dei miei genitori. Ogni sera il mio sguardo si posava sull’Everest, o meglio sul poster del lato sud-est sopra il mio letto. In basso, c’era un versetto biblico: «In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare». Un versetto confortante, per me che avevo sempre paura del buio. Ero stregata dal mondo delle vette. Chiedevo spesso ai miei genitori come facessero gli alpinisti ad arrampicarsi fino alle nevi eterne. Mi rispondevano: «Quando sarai grande vedrai!».

Andavamo spesso a fare escursioni in montagna; avevo quattro anni quando i miei ci hanno portati al rifugio del ghiacciaio bianco vicino Briançon, nel cuore degli Écrins. Con mio fratello, più grande di due anni, abbiamo fatto la salita da soli, come i grandi, senza battere ciglio. Io volevo andare ancora più su. A casa, passavo il tempo arroccata in cima al tiglio con mio fratello, o sugli alberi lungo la riva del Lozière, un ruscello vicino. Sognavo le montagne, studiavo le carte geografiche e i libri d’alpinismo, contemplavo le foto. Il mondo delle vette mi intrigava sempre di più, come qualcosa di proibito, un soffio d’ignoto. Volevo esplorare, disegnare le mie immagini su quelle creste. È lì, in realtà, che sono cominciate la mia vita d’alpinista e le mie spedizioni, lì nel mio fantasticare, nella mia immaginazione, nel mio desiderio. Non so più dire come sia arrivata sul Nanga quest’inverno, ma è in quegli anni che tutto è cominciato.



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