Zitelle. Il bello di vivere per conto proprio by Kate Bolick

Zitelle. Il bello di vivere per conto proprio by Kate Bolick

autore:Kate Bolick [Bolick, Kate]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Family & Relationships, Marriage & Long-Term Relationships
ISBN: 9788845497506
Google: -FrzDQAAQBAJ
editore: Sonzogno
pubblicato: 2016-09-14T22:00:00+00:00


* * *

1 La ragazza alla moda degli anni Venti, che ascoltava jazz, fumava e portava abiti corti e capelli alla maschietta. (N.d.T.)

2 Edna e Eugen chiamarono la loro tenuta come la delicata olmaria dai fiori rosa (steeplebush), un arbusto locale che cresceva in abbondanza sulla proprietà. Alla sua morte, Edna fu sepolta con un fiore di olmaria tra le mani.

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La saggista: seconda parte

Un recente studio di una compagnia di assicurazioni sulla vita ha rivelato che quasi la metà delle donne americane ha paura di diventare senzatetto – non solo quelle che non sono mai state sposate, con un picco del 56 per cento, ma anche le divorziate (54 per cento), le vedove (47 per cento) e perfino quelle che sono ancora sposate (43 per cento).

Non sono mai caduta preda di questa particolare paura, ma nel mio piccolo ho sondato un certo numero di altri destini orribili. Potrei essere violentata e uccisa. Potrei uccidere qualcuno. Potrei essere vittima di un terribile disastro aereo e morire tra sconosciuti che gridano e vomitano (il mio incubo personale).

Eppure, dopo solo un anno in cui cercavo di sfangarmela con le recensioni di libri da freelance, mi convinsi che ero a un passo dal finire a «vivere sulla strada», come mi dicevo. Avevo trovato un mucchio di lavoro – il Boston Globe mi assegnò una rubrica di recensioni di memoir e riuscii a ottenere collaborazioni con altri giornali e riviste (tra cui Vogue: alla fine, io e Neith Boyce eravamo colleghe alla lontana) – ma in genere ero pagata pochissimo e non avendo il talento, la sicurezza di sé, la resistenza psicologica e il sostegno familiare di Edna Millay, facevo fatica a tenere i nervi saldi. Le mie entrate erano talmente irregolari che la maggior parte delle volte, nel tardo pomeriggio, diventavo così ansiosa che dovevo interrompere qualunque cosa stessi facendo e sdraiarmi sul divano, come una lattante bisognosa di fare la nanna. Il fatto di aver trasformato questa preoccupazione fondata in una paura così irrazionale da sembrare stupida – a differenza di molte persone che sono davvero a un passo dal finire sulla strada, ho la fortuna di avere un bel rapporto con mio padre, che nella peggiore delle ipotesi mi avrebbe lasciato tornare a casa – sembra dimostrare, ripensandoci, che usassi la paura come stimolo: se mi fossi permessa di pensare che avevo un’ancora di salvataggio, rischiavo di non continuare a fare progressi.

Socializzare era molto difficile in queste condizioni, figuriamoci uscire con gli uomini. La mia storia con T., un tempo un’eccitante fuga dalla normalità, diventò un doloroso e ricorrente promemoria della mia solitudine. Lo lasciai, spiegandogli che avevo bisogno di trovare qualcosa «di più». Cominciavo a capire il fascino del matrimonio: sostegno reciproco, divisione delle bollette.

Con sentimenti contrastanti – un senso schiacciante di fallimento solo leggermente mitigato dal sollievo – nell’autunno del 2003 accettai un posto come redattrice culturale per un piccolo quotidiano (oggi fallito). Situato in un palazzo dell’Ottocento di ghisa e mattoni bianchi su un angolo trafficato di Lower Manhattan,



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