Cose dell'altro mondo by Elizabeth McCracken

Cose dell'altro mondo by Elizabeth McCracken

autore:Elizabeth McCracken [McCracken, Elizabeth]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Bompiani
pubblicato: 2023-03-23T00:00:00+00:00


L’UFFICIO OGGETTI SMARRITI DI GREATER BOSTON

C’era una volta una donna che scomparve da un vicolo cieco. Si chiamava Karen Blackbird. Era magrissima, allegra e nervosa, con due cerchi imbrattati sotto gli occhi, e i capelli castano chiaro crespi e scarmigliati. Era alta un metro e cinquantasette, un metro e cinquantotto o un metro e cinquantanove. Aveva un tatuaggio a forma di cherubino che conoscevano in pochi e la scheggia di una punta di matita che da piccola, inciampando lungo le scale, le si era conficcata nel palmo della mano sinistra. Le piaceva farla vedere ai bambini della mensa scolastica dove lavorava. “Ho rischiato l’avvelenamento da piombo,” diceva, allargando le dita per appiattire la mano. “Non è vero,” dicevano quelli di prima media e quelli più smaliziati di quinta elementare, “nelle matite non c’è mica il piombo, c’è la grafite.” Eppure si divertivano a guardare la macchiolina grigia radiografica che le tranciava in due la linea della vita. I bambini sapevano poco o niente di chiromanzia, pochissimo di vita e ancor meno d’amore, ma credevano nelle linee della vita e nelle linee dell’amore come credevano nei termometri al mercurio: un significato ce l’avevano ma forse per leggerli ci voleva un adulto. “Significa che scriverò il mio destino da sola,” avrebbe detto Karen Blackbird, se gliel’avessero chiesto. Ai bambini, incluso suo figlio, poco importava che Karen Blackbird avesse quarantadue anni: per loro l’età adulta era un unico lasso di tempo. Andavano pazzi, invece, per l’età degli oggetti. Quando Karen Blackbird scomparve, la grafite nel suo palmo aveva trentatré anni.

In questo caso e in nessun altro, “c’era una volta” significa “fine estate 1982”.

Prima di sparire Karen Blackbird abitava in una casa vittoriana fatiscente insieme al padre anziano e al figlio adolescente. Il figlio aveva diciassette anni ma era mingherlino: un metro e cinquanta per quaranta chili. Rimediava qualche spicciolo raccogliendo le foglie, spalando la neve e consegnando il settimanale Graphic: i soliti lavoretti che facevano i ragazzini della zona. Con quei capelli scuri e gli occhi come inchiostro da stampa sembrava un orfano intraprendente, anche se si vestiva come un hippy, i jeans sbiaditi fino a diventare grigi e le magliette sbrindellate con sopra le scritte. Il nonno non approvava come la figlia tirava su il nipote. Secondo lui l’infanzia era la fornace dove venivano forgiati gli uomini: non poteva essere tiepida. Il nonno aveva la testa a forma di mantice, larga all’altezza delle tempie, i lati obliqui con le orecchie attaccate e la faccia che si restringeva fino alla bocca cattiva, risentita e scontrosa.

Ma tu guarda: Karen Blackbird è sul portico davanti a casa prima di sparire. Casa che è uno sfacelo, le mattonelle d’amianto marrone striate di lacrime dalle intemperie. In cortile, spuntano le sopracciglia da alligatore di un tosaerba. Alla ringhiera del portico hanno fatto saltare metà dei denti e Karen Blackbird mette la punta della scarpa in uno dei vuoti e ruota il piede avanti e indietro, neanche fosse un interruttore per accendere una decisione. I capelli bislacchi si agitano al vento.



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