Il Mar delle Blatte by Tommaso Landolfi

Il Mar delle Blatte by Tommaso Landolfi

autore:Tommaso Landolfi [Landolfi, Tommaso]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Adelphi
pubblicato: 2024-02-26T23:00:00+00:00


RAGAZZE DI PROVINCIA

Il cortile era stato invaso dall’erba e dalle aiuole erano venuti sù grossi gigli che, non si sa perché, si vedevano solo di notte. La prima sera, nel buio, essi se ne stavano perfettamente immobili e un po’ selvatici, come se fossero stati presi sul fatto; ma le notti seguenti divennero più domestici e cominciarono perfino a brandire. Gigli di S. Antonio.

Da quando era tornato, ahimè per poche settimane, Carlino non faceva che aggirarsi senza mèta per le vecchie stanze che sentivano di muffa, abbandonandosi tutto a ogni minuto incontro; s’aggirava, simile a un cieco e con un madore di gioia, per il mondo della sua infanzia. In casa non c’era più nessuno, oltre il cane, e la donnetta che veniva a sbrigar le faccende non si tratteneva più di due ore, ogni giorno.

La mattina, levandosi, Carlino cantava a squarciagola, e anche durante il giorno, intraversato sulla soglia di una porta, intonava – per uso soltanto del cane accucciato in un angolo – pezzi d’opera con relativa mimica. «Verranno a te sull’aure» modulava ad esempio mentre s’infilava la camicia, alzando pateticamente le sopracciglia, mentre il cane dal suo angolo dimenava a buon conto la coda. E poi si stirava, faceva crocchiare le giunture, respirava l’aria arsiccia della campagna. Verso il crepuscolo, quando finalmente le cose assumono il volume e il contorno che loro compete (non più ingrassate e bagnate dalla luce diurna e tuttavia non ancora diffuse da quella notturna), rimaneva a lungo su un gradino della scala esterna, abbracciato alle proprie ginocchia, preso da quella mutezza.

A questa felicità non mancava che d’essere incosciente – vantaggio o svantaggio a seconda delle opinioni. Colpa degli anni di città, o soltanto degli anni passati? Qualche volta a Carlino pareva di gustare, in fondo a tutto ciò, un sapore amaro.

Fu così aggirandosi che una volta scoprì in una cassa i costumi da teatro. Erano abiti senza fodera, alla foggia del Cinquecento e d’altri secoli passati, che nelle grosse impunture rivelavano, appena a voltarli, una confezione affrettata, e tramandavano un curioso odore di velluto, di raso, di filo lucente da ricamo e forse di naftalina.

Quegli abiti avevano una particolarità: si agganciavano tutti di dietro, con ciappe a maschio e femmina, sicché non si potevano vestire senza aiuto. Ecco le brache, ecco la giubba cinquecentesca di velluto viola che spesso toccavano a lui, Carlino, ai tempi in cui nella grande sala si recitava. I compagni di recitazione erano gli altri giovinetti di casa, maschi e femmine anche loro. O come sarà ora la cugina che sempre lo aiutava, all’ultimo momento, ad agganciarsi la giubba viola? Ecco qui anche il costume abituale di lei: una veste di raso bianco, con delicati sbalzi in oro, lunga fino ai talloni, anzi con un po’ di strascico. Soltanto lei, del resto, riusciva a infilarla; ci voleva un vitino di vespa per ciò – eppoi da quel vitino si gonfiava con improvvisa turgidezza il seno, in condizioni normali appena sensibile. Ella doveva avere quindici anni, allora; le sue mani erano esigue, e dal suo corpo sottile venivano zaffate di odori torbidi.



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