I quaranta giorni del Mussa Dagh by Franz Werfel

I quaranta giorni del Mussa Dagh by Franz Werfel

autore:Franz Werfel
La lingua: ita
Format: epub, mobi
pubblicato: 1933-02-13T05:00:00+00:00


Non erano trascorsi più di tre giorni e tre notti, quando gli osservatori annunciarono ogni sorta di movimenti incomprensibili nei villaggi.

Gabriele Bagradiàn si recò subito ad un posto di vedetta. E infatti nel settore del cannocchiale Zeiss egli scorse un vivace brulichio di forme ben distinte. Nella pianura dell'Oronte, sulla strada fra i villaggi, sulle carreggiabili e sulle mulattiere intorno, avanzavano pian piano lunghe file di carri tirati da buoi. Nei villaggi stessi si vedevano gruppi numerosi di uomini in fez e turbante, che correvano avanti e indietro. Gabriele esplorò col cannocchiale ogni punto, ma non vide neppure un soldato e solo pochi zaptié. Notò invece che questa volta nei villaggi abbandonati non penetrava soltanto la ben nota plebe di Antakje e dintorni; l'affluenza odierna dava l'impressione di qualcosa di più importante e pareva diretta ad uno scopo determinato.

Sulla piazza della chiesa di Yoghonolúk regnava un movimento agitato e frettoloso. Uomini col turbante si arrampicavano sulla scala esterna della chiesa, che serviva in caso d'incendio, e si movevano nel campanile vuoto di fianco alla grande cupola. Si udirono, no, si indovinarono i suoni prolungati di una vocetta sottile sottile, che si propagavano ai quattro venti. Dalla casa di Cristo il "muezzino" del Profeta lanciava la sua melodia allettatrice e lamentosa, che fa tremare ogni Maomettano e che in quel momento pareva voler sedurre i credenti a recarsi da tutte le borgate, dai casali, dalle capanne del paese deserto nei villaggi del Mussa Dagh. La sorte della chiesa "delle crescenti potenze angeliche", fondata da Avetís il vecchio, era suggellata.

E nel cervello del nipote balenò il desiderio ardente di osare il superbo tentativo di distruzione con qualche granata di obice. Ma rigettò questa voglia, appena nata. Il suo antico principio, di difendere sempre, di non attaccare mai, da lui meno che da tutti doveva essere infranto. Certo la montagna appariva ai nemici laggiù più pericolosa, se giaceva morta nel suo mistero. Ogni provocazione doveva indebolire la lotta di difesa, perché dava ai Turchi, ossia al popolo di Stato, un diritto morale alla punizione.

Alla vista dell'ignoto formicolio nella valle, Bagradiàn si domandò quante battaglie avrebbero potuto sostenere ancora. Le munizioni, non ostante il bottino di due vittorie e la manifattura di cartucce di Nurhàn, rimanevano alquanto limitate. Stringeva il cuore pensare che il minimo insuccesso, il più piccolo scacco doveva condurre irrevocabilmente alla rovina. Per il popolo del Damlagík non c'erano gradi intermedi, ma solo grandi vittorie o la morte. La perdita di una sola trincea significava già la fine. Gabriele Bagradiàn rifletté, come già mille altre volte, che non solo una simile perdita, ma tutto, il buono e il cattivo, qualunque forma prendesse, significava la fine. La sua arte strategica doveva solo protrarre questa fine, fin tanto ch'era possibile. A tale scopo non doveva essere speso invano il capitale del timor panico, che la montagna ispirava evidentemente ai Turchi dopo la loro doppia sconfitta.

La nuova popolazione della valle cresceva di minuto in minuto. "Certo non si tratta di un'impresa militare", si convinse Bagradiàn dopo qualche tempo.



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