Teoria della classe disagiata by Raffaele Alberto Ventura

Teoria della classe disagiata by Raffaele Alberto Ventura

autore:Raffaele Alberto Ventura
La lingua: ita
Format: epub
editore: minimum fax edizioni
pubblicato: 2018-04-24T04:00:00+00:00


· Riproducibilità perdita dell’aura

· Divisione del lavoro assenza del genio individuale

· Meccanizzazione dei processi artificio

· Impatto ambientale e sociale esternalità negative

· Scadimento delle materie prime minore qualità/obsolescenza

· Grandi scale di produzione standardizzazione/conformismo

· Impresa capitalistica interessi di classe

· Domanda ampia livellamento sui gusti popolari

· Offerta ampia consumismo

· Separazione produttore/consumatore passività del consumo

Queste critiche, che fornirebbero materia per un nuovo «dizionario dei luoghi comuni», appaiono oggi piuttosto ingenue e miopi. Prodotti «industriali» come i grandi classici del cinema o del fumetto sono da tempo entrati nel canone artistico del Novecento. Per un gusto e un’intelligenza non contaminati dalla propaganda del mercato dell’arte e dalle sue pratiche di aggiotaggio storiografico, una storia di Zio Paperone firmata Carl Barks o un western di John Ford valgono tanto quanto una tela di Kandinsky. Oggi le posizioni anti-industriali sono diventate un segmento di domanda e la critica del mondo consumista un caposaldo dell’estetica popolare. Chi comprerebbe oggi un gelato che facesse vanto di essere «prodotto in serie con i più moderni ritrovati industriali»? Al contrario, tutti accorrono da Grom per mangiare un «gelato artigianale» anche se prodotto in fabbrica. Quello che rende effettivamente desuete (e per ciò stesso inflazionate) analisi come quelle di Adorno e Horkheimer è la trasformazione dell’industria culturale, oggi in grado di soddisfare ogni possibile nicchia immaginabile.

A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, l’industria e il mercato erano stati messi in discussione in quanto industria e in quanto mercato, per via di una confusione tra limiti storici contingenti e limiti strutturali. Dalla fine degli anni Settanta, funzionando a pieno regime una vera e propria «economia del desiderio», la contestazione della società industriale si accomoda nel suo legittimo segmento. Veblen parlerebbe di «conspicuous morality», l’ostentazione di consumi moralmente legittimi che definiscono l’appartenenza a una classe educata. A questa trasformazione delle abitudini di consumo – allo sgretolamento delle ultime resistenze culturali – lavorano anche le avanguardie artistiche e i movimenti di contestazione. Masse di consumatori ribelli hanno espresso un bisogno su scala industriale di beni non-industriali. Contraddizione? Assolutamente no: l’industria sarà presto capace di soddisfare anche questo. L’estetica anti-­industriale resta a lungo di sola proprietà d’una sparuta classe d’intellettuali elitari, ma non tarderà a diventare moneta comune nel marketing: gli anni Sessanta rappresentano lo spartiacque simbolico tra due epoche della cultura di massa. In effetti sarebbe un errore considerare il nuovo sistema di valori anti-­industriale come incompatibile con l’economia industriale. Paradossalmente, ciò che i critici più radicali stavano formulando, credendo di porre condizioni che l’industria non avrebbe potuto soddisfare, era semplicemente una domanda altamente esigente. Non era tanto un «no» alla società industriale quanto un «sì ma», come sarebbe apparso chiaramente solo più tardi. Per dirlo con le parole di Eric Hobsbawm, dal capitolo del suo Secolo breve dedicato i movimenti di contestazione:



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