Antologia privata by Giorgio Manganelli

Antologia privata by Giorgio Manganelli

autore:Giorgio Manganelli
La lingua: ita
Format: epub
Tags: letteratura,
editore: Quodlibet
pubblicato: 2015-07-14T16:00:00+00:00


(«Corriere della Sera», 1983)

Salons

Le didascalie della gloria

Napoleone offriva la propria storia guerriera e rivoluzionaria a una singolare consacrazione estetica e oratoria. L’uomo che Goethe, Beethoven, Foscolo, consideravano maschera riassuntiva della «rivoluzione», della «liberazione» aveva di sé, delle proprie imprese un’idea lievemente, cautamente ironica. Consapevole che la rivoluzione non s’accompagna a uno stile socialmente impeccabile, si studiò un’immagine delicata e decorosa. D’altronde, aveva una certa debolezza scolastica per i pensieri di gloria; la grandezza, la perennità, l’eroe, la guerra, l’amico caduto, tutta la paccottiglia dell’oratoria neoclassica sembrava pronta per offrire i suoi articoli di buona, anche se accademica fattura, in onore del caporale-console-imperatore, vincitore ed esule. Napoleone, del tutto ignaro di sé, afflitto, nel gusto, da una ragionevolezza che era la sua mattana («Non crede di essere Napoleone») non disamava le certezze un poco inerti dell’accademia. Ma nemmeno le amava del tutto. Sappiamo che in musica non amava Spontini e nemmeno tanto Cherubini; erano, diciamo così, un po’ troppo spericolati. L’accademia napoleonica si compiaceva di Paisiello, magari di Piccinni; pensare un Napoleone invaghito di un rivoluzionario come Gluck, è come supporre un Vittorio Emanuele II intollerante wagneriano. Improbabile. Appiani era un poco spontiniano; dunque, gli andava a genio, dunque gli dava noia. Ma nessun Paisiello pittore, se mai vi fosse stato, sarebbe stato in grado di «celebrare» Napoleone.

Paisiello non era uomo da battaglie, neppure libresche; non era incline alle belle, patetiche citazioni dei classici. «Mia bellissima Rosina...», il console sorrideva: ma la gloria, la gloria come consacrarla?

Tra il 1803 e il 1807 Andrea Appiani dipinse una serie di tele per il Salone delle Cariatidi, dell’allora palazzo ducale di Milano. «I Fasti napoleonici». Titolo imperiale, augusteo, anche ovidiano. Dei «Fasti» dell’Appiani, omaggi alla guerra distrutti dalla guerra, restano accurate incisioni. Che cosa sono i «Fasti»? Una grande invenzione di propaganda d’immagine; operazione da mass media, una biblia pauperum, una serie di manifesti, un monumento alla pietà di Stato. Insomma, una macchina frodolenta di immagini nobili e tragiche, nel senso più teatrale, più scolasticamente oratorio. C’è dentro tutto ciò che poteva essere in qualche modo nobile: cavalli da scuderia degli dèi, in un presentimento da generale Custer; un’idea delle città e delle fortificazioni che è più alessandrina che medievale: disegni nitidi, grafismi da primo della classe, citazioni di sfondi arcaicizzanti in dipinti rinascimentali; una dotta ambiguità religiosa, con muse, parche, femmine cui sono cresciute le ali, a significare le scansioni del destino; marce che sembrano processioni, processioni che si muovono come marce o cortei degli israeliti nel deserto; un buon sapore di antico testamento, perché a nobilitarlo ci hanno pensato secoli di pittura accademica attendibile. Che fa quella signora che galleggia, con quelle belle gambe tonde, e per di più ha le ali, e la chioma pettinata alla classica, e in più ha una gigantesca tromba, con la quale verosimilmente fa un incredibile baccano? Orsù, Napoleone è diventato primo console, è ora di cavar fuori dal guardaroba teatrale elmi, cimieri, stendardi, e un’altra signora, seduta su un trono con decorazioni un poco orientali,



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