Generazione Kalashnikov: Un antropologo dentro la guerra in Congo by Luca Jourdan

Generazione Kalashnikov: Un antropologo dentro la guerra in Congo by Luca Jourdan

autore:Luca Jourdan [Jourdan, Luca]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: eBook Laterza
ISBN: 9788858115893
editore: Editori Laterza
pubblicato: 2014-07-20T22:00:00+00:00


13. Una violenza eccessiva

Il grado estremo e le forme macabre della violenza nella guerra in Congo necessitano di un ulteriore sforzo interpretativo. Innanzitutto non ci troviamo di fronte a un caso peculiare, poiché questo eccesso di violenza, ovvero il terrore, caratterizza buona parte delle guerre contemporanee. In tutti i casi, gli atti di violenza si presentano come privi di misura e insensati, e per questo ci appaiono incomprensibili e impenetrabili (cfr. Beneduce, 2004).

In una situazione di guerra, dobbiamo innanzitutto considerare le funzioni tattiche del terrore. Come abbiamo già detto, le cosiddette guerre post-moderne sono combattute perlopiù con armi leggere e poco sofisticate, talvolta all’arma bianca. In conflitti del genere il terrore svolge una funzione che, in termini militari, potremmo per l’appunto definire tattica: in sostanza, esso supplisce alla carenza sia quantitativa sia tecnologica degli armamenti e, data la sua efficacia, il suo utilizzo è divenuto sistematico22.

Ma è l’assenza di limiti nella violenza, il suo carattere smodato ed eccessivo che vanno compresi. Roberto Beneduce propone una spiegazione:

In ogni caso, per essere efficace, una cultura del terrore deve essere in grado di sfidare tutte le regole della logica. Attraverso i suoi atti afferma un altro ordine dell’esperienza, dal momento che il “successo traumatico” di queste operazioni deriva, in buona misura, dall’impossibilità, da parte delle vittime, di dare a questi atti una qualche sorta di significato. La natura straordinaria di questa violenza è dovuta alla sua parziale o totale sconnessione da un ordine sociale condiviso. La produzione di una “cultura del terrore”, la cui natura incomprensibile o gratuita sembra spesso negare la possibilità di un’analisi storica, costituisce dunque l’effetto peculiare di una violenza generalizzata, ritualizzata e spettacolare. Le vittime del terrore, per opporsi ad esso, non possono fare altro che sottolinearne il carattere assurdo (Beneduce, 2007: 49-50).

Uno degli effetti più dirompenti del terrore è quindi la produzione di un quotidiano incomprensibile, ai limiti del grottesco, dove ogni norma sociale viene stravolta o annientata. Negli atti terrifici – uccisioni, amputazioni, atti di cannibalismo, ecc. – la violenza non è mai casuale, ma viene esercitata su specifiche parti del corpo e secondo modelli ben precisi. Lisa Malkki, per esempio, nel suo studio sui rifugiati Hutu in Tanzania, ha mostrato come le forme della violenza perpetrata sugli Hutu dagli assassini Tutsi, nel genocidio burundese del 1972, ricalcassero in modo scrupoloso delle “mappe necrografiche”. Queste ultime sono delle rappresentazioni delle identità etniche prodotte dalle tassonomie razziali di epoca coloniale e ulteriormente rafforzate nel periodo post-coloniale. Le “tecniche” abiette attraverso cui gli Hutu venivano messi a morte riflettevano la volontà di incidere e fissare sul corpo del nemico gli stereotipi razzisti radicati nella società burundese: le vittime, per esempio, venivano impalate con bastoni di bambù lunghi anche due metri, che raffiguravano in modo stereotipato i Tutsi; oppure erano costrette a uccidersi l’un l’altra a colpi di martello sulla testa, un supplizio che contrastava simbolicamente la volontà degli Hutu di accedere a un’educazione superiore (Malkki, 1995).

Si tratta di “tecniche di vivisezione” che si collocano all’interno di modalità ritualizzate di uccisione e d’inflizione della sofferenza.



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