La donna in lager by Aleksàndr Solženìcyn

La donna in lager by Aleksàndr Solženìcyn

autore:Aleksàndr Solženìcyn [Solzenicyn]
La lingua: ita
Format: epub
editore: bruno osimo
pubblicato: 2022-11-14T23:00:00+00:00


Ma non sono solo la sorveglianza e i capi a poter separare i coniugi di lager. L’arcipelago è una terra così perversa, che un uomo e una donna sono separati da ciò che dovrebbe unirli più saldamente: la nascita di un bambino. Un mese prima della nascita la donna incinta viene trasferita in un altro lager, dove c’è un ospedale di lager con un reparto natalità e dove vocettine vivaci gridano che non vogliono essere zèk per i peccati dei loro genitori. Dopo il parto la madre viene mandata nell’apposito lagpunkt di mamki nelle vicinanze.

Qui bisogna interrompersi! Qui non è possibile non interrompersi! Quanta autoironia in questa parola! «Noi non siamo reali!..» Il linguaggio dei zèk è molto affettuoso e aggiunge sempre suffissi dispregiativi: non mat’ [32] , ma mamka; non bol’nìca [33] ma bol’nička; non svidanie [34] , ma svidanka; non pomilovanie [35] , ma pomilovka; non vol’nyj [36] ma vol’nâška; non ženit’sâ [37] , ma podženit’sâ – la stessa presa in giro, anche se non nel suffisso. E anche la četvertnaâ (venticinque anni) si contrae in četvertaka, cioè da venticinque rubli a venticinque copechi!

Con questa insistente devianza della lingua, gli zèk mostrano che nell’Arcipelago tutto non è reale, tutto è posticcio, tutto è di qualità infima. E che loro stessi non hanno a cuore ciò che ha a cuore la gente comune, sono consapevoli sia della falsità delle cure che ricevono sia della falsità delle richieste di perdono che sono costretti anche senza fede a scrivere. E riducendola a venticinque copechi, il zèk vuole mostrare la sua superiorità anche su una condanna quasi all’ergastolo!

Così, nel loro lagpunkt, le mamki vivono e lavorano, finché da qui non vengono scortate ad allattare al seno i neonati indigeni. Il bambino in questo momento non è più in ospedale, ma nella “detgorodka” [38] o nella “dom malûtki” [39] , come si chiama nei vari luoghi. Dopo la fine dell’allattamento, le madri non sono più autorizzate ad andarli a trovare – o eccezionalmente «con lavoro e disciplina esemplari» (beh, il senso sta nel non tenerle vicine solo per questo, le madri vanno mandate a lavorare dove richiede la produzione). Ma spesso la donna non torna nemmeno al vecchio lagpunkt dal suo “marito” del lager. E il padre, finché è in lager, non vede di certo il figlio. I bambini nella detgorodka dopo lo svezzamento sono ancora tenuti per un anno (vengono nutriti secondo le norme dei bambini liberi e quindi il personale medico del lager e la hozobsluga [40] ci mangiano sopra). Alcuni senza madre non riescono ad adattarsi all’alimentazione artificiale, muoiono. I figli sopravvissuti vengono mandati un anno dopo in un orfanotrofio comune. Così il figlio di un indigeno e di un’indigena per ora lascia l’Arcipelago, non senza la speranza di tornarci da bambino.

Chi ha seguìto la vicenda dice che non capita spesso che una madre porti via il proprio figlio da un orfanotrofio dopo la scarcerazione (le blatnâčki [41] non lo fanno mai), tanto sono maledetti molti di questi bambini che hanno dato aria per la prima volta ai piccoli polmoni con l’atmosfera infetta dell’Arcipelago.



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