L'Italia dell'Asse by Indro Montanelli Mario Cervi
autore:Indro Montanelli, Mario Cervi
La lingua: ita
Format: epub
editore: BUR
pubblicato: 2016-07-22T04:00:00+00:00
CAPITOLO DECIMO
LA MORTE DI PIO XI
La lotta alle leggi razziali fu l’ultima pagina, alta e nobile, del pontificato di papa Ratti. Il 10 febbraio di quel fatale anno 1939, Pio XI morì, e anche questo fu considerato a posteriori un evento fatale. Nonostante gli ottantadue anni suonati, sino a pochi giorni prima era apparso pieno di vigore, e si diceva che per il giorno 11, decimo anniversario dei Patti Lateranensi, avesse già preparato un discorso «esplosivo» di denuncia del nazismo, e quindi anche, di riflesso, del fascismo.
Di questo discorso, che la morte gl’impedì di pronunciare chiudendogli gli occhi ventiquattr’ore prima, non si è mai trovata traccia. Ma il cardinale Confalonieri, che fu suo segretario particolare, ha confidato in via del tutto riservata a un nostro collaboratore che il testo era effettivamente già pronto e conteneva accuse gravissime ai due Regimi, e la cosa non ci sorprende affatto.
Nella pubblicistica dell’anticlericalismo più rozzo, papa Ratti passa per un papa «fascista». Ma si tratta di una semplificazione sommaria e deviante. Ratti era un conservatore, questo sì. Lo era perché in un ambiente conservatore di agiata borghesia lombarda era nato (a Desio, in provincia di Milano, nel 1857), e vieppiù lo era diventato da nunzio apostolico in Polonia durante i torbidi anni del primo dopoguerra. Delle violenze comuniste, che avevano lastricato di cadaveri le vie e le piazze di Varsavia, aveva concepito un profondo orrore. E se ebbe, come certamente ebbe, qualche simpatia per il fascismo, fu perché credette di vedere in esso una forza restauratrice dell’ordine, della legalità e dei valori tradizionali. Asceso al Soglio nello stesso anno in cui Mussolini ascendeva al potere, trovò nel Segretario di Stato, Gasparri, un consigliere che covava, verso il nuovo Regime, gli stessi sentimenti. Entrambi detestavano il populismo del Clero «progressista» alla David Albertario, e diffidavano dell’ala socialisteggiante del vecchio partito popolare. Quando Tito Zaniboni fu sorpreso nell’atto di attentare al Duce, il Papa lo deplorò in una pubblica allocuzione. Poteva sembrare normale che un uomo di Chiesa condannasse un gesto, o almeno un’intenzione di violenza. Ma prima di allora nessun Pontefice lo aveva fatto, per nessuno. Viceversa, quando il quasi omonimo Zamboni, un ragazzo quindicenne di Bologna, fu sommariamente linciato dai fascisti perché sospettato di aver sparato a Mussolini (la verità su questo episodio non è mai stata accertata), il Papa tacque.
Il fatto è che Mussolini non aveva perso tempo per dimostrare al Vaticano la sua disponibilità a un accordo che liquidasse le vecchie pendenze fra Stato e Chiesa, aveva già incontrato segretamente Gasparri, era quello che aveva rimesso il crocefisso nelle scuole, e conduceva le trattative con la Santa Sede mostrando verso di essa un rispetto quasi filiale. Il Papa aveva quindi, dal suo punto di vista di Capo della Chiesa, qualche ragione di chiamare Mussolini, a conclusione dei Patti Lateranensi, «l’uomo della Provvidenza». Per la Chiesa, fino a quel momento, lo era stato.
Forse fu proprio questo suo sperticato elogio che indusse Mussolini a mutar registro: sia per un rigurgito del suo vecchio anticlericalismo
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