Verde Eldorado by Adrián N. Bravi

Verde Eldorado by Adrián N. Bravi

autore:Adrián N. Bravi [Bravi, Adrián N.]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Eldoado, Caboto, Venezia, Rio de la Plata, Paraguay, cannibali, indigeni, Molucche
editore: Nutrimenti
pubblicato: 2022-06-15T22:00:00+00:00


11. Di quando gli indios mangiano i miei compagni e di quando incontro per la prima volta Giorgina che prova a raccontarmi del suo rapimento

Sono stato portato al villaggio dopo un lungo cammino sulle spalle di un nègas-dè – marito o mezzo marito di Giorgina, ho saputo dopo. Tacevo, nemmeno mi sforzavo di chiedere, a gesti o in qualsiasi altro modo, che intenzioni avessero nei miei confronti, ossia dell’unico superstite. Ricordo che, appena mi hanno rimesso a terra, al centro di uno spiazzo circondato da capanne, mi sono girato il cappuccio per allineare i fori. Una folla nuda con la pelle dipinta e adorna stava creando un semicerchio intorno a me. Io cercavo di capire attraverso i fori del cappuccio, nel terrore più assoluto, dove erano andati a finire i pezzi dei miei compagni. Intanto, gli indios erano impegnati in alcune considerazioni, a giudicare dall’atteggiamento e dai gesti. Con ogni probabilità si chiedevano da dove venivo o come ero arrivato al fiume rosso. Di sicuro era la prima volta che quelle acque venivano infrante dalla chiglia di una nave europea. La disposizione della folla mi faceva pensare che attendessero l’arrivo di qualcuno, un’autorità che si sarebbe pronunciata nei miei confronti con un qualche verdetto. Avrei preferito rigirare il cappuccio, mettere i fori al contrario e non vedere la faccia di chi mi avrebbe decapitato, ma mi mancava il coraggio.

Poco dopo, come previsto, un ometto anziano con i capelli lunghi legati e una fascia sulla fronte si è fatto largo. Camminava adagio, mentre due o tre donne lo precedevano pulendo con dei rametti il sentiero che avrebbe calpestato a piedi scalzi. Aveva un abito discinto e portava sulle spalle un mantello maculato; poteva essere un sacerdote, un intercessore, comunque qualcuno di molto rispettato. La sua figura ricordava il nostro serenissimo principe, il doge, che godeva di un suo prestigio ma allo stesso tempo era investito di una forte responsabilità verso i sudditi. Lo si intuiva facilmente. Lo chiamavano mburuvicha. Forse era stato un guerriero che ormai aveva smesso di combattere, considerata la veneranda età – la conformazione era quella di un tipo pugnace e periglioso, anche se rincagnito. Qualcuno mi ha tolto di nuovo il cappuccio perché l’anziano potesse vedermi in faccia, e lui mi ha scrutato per bene, analizzando ogni dettaglio non solo della faccia, ma della testa, delle braccia, del torace e delle gambe. Ero in balia della sua decisione. Alla fine ha annuito in modo maestoso e imperturbabile, mostrando una sorta di approvazione, poi ha pronunciato la frase di rito che ormai iniziava a suonarmi familiare: “Kulumanè-Jajay-Karai, Kulumanè-Jajay-Karai”. Gli altri gli hanno fatto eco a gran voce e, giusto per assicurarsi che l’avessero capito, il vecchio ha iniziato un lungo discorso intercalato proprio da quel Kulumanè-Jajay-Karai, Kulumanè-Jajay-Karai. Di tanto in tanto faceva una pausa, mi guardava fisso, aggiustava il mantello di giaguaro e riattaccava. Forse stava cercando di raccomandarmi a qualche forza soprannaturale, forse mi stava illustrando le ragioni per cui non mi avevano ancora ucciso, come i miei compagni.



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